Una delle mie ultime letture è stata il secondo romanzo di Arthur Conan Doyle con il celeberrimo detective Sherlock Holmes.
Stranamente, nonostante mi sia approcciato alla raccolta in lingua originale, continuo ad esserne ineressatissimo e, devo ammetterlo, a dispetto degli anni di distanza tra autore e lettore, trovo enormemente divertenti i romanzi di Conan Doyle.
In questo secondo romanzo, che gira attorno alla storia di un favoloso tesoro rubato da un ex galeotto, che poi ha fatto perdere le proprie tracce, secondo me, Conan Doyle fa un salto in avanti rispetto a “Uno Studio in Rosso”.
L’omogeneità del romanzo, infatti, è superiore al precedente libro. Non vi è, infatti, uno stacco netto tra il tempo presente e quello passato e la storia scorre fluida e intrigante, con un ritmo sempre più incalzante.
Avendo già letto due romanzi di Conan Doyle, mi sento di poter già evidenziare alcuni leit-motiv che sembrano connaturati allo stile dell’autore:
- Gli omicidi sono causati dalla vendetta
- Il contesto storico è fondamentale
- La riflessione sociale è protagonista della storia
Principalmente questi tre aspetti vengono enfatizzati dal famosissimo scrittore scozzese, in grado di creare delle atmosfere così vivide e uniche nel loro genere da rendere le sue opere davvero intramontabili.
La riflessione sui moventi degli assassini è interessante almeno quanto la descrizione del protagonista stesso.
La vendetta, oggi, è un espediente quasi secondario per giallisti o autori di mystery novel. Spesso si preferisce costruire storie in cui dietro ci sono intrighi di potere o ricorrere direttamente a menti criminali del tutto malate, che amano il male puro e semplice.
Invece Conan Doyle si concentra sulla tematica della vendetta, sull’omicidio come trionfo di un lungo percorso di sofferenza e frustrazione, che, in qualche modo, ripristina l’equilibrio naturale della psiche dell’omicida, che, in questi romanzi, è un calcolatore più che un manigoldo, un disperato più che un disturbato.
Ancora una volta, poi Conan Doyle si interessa tanto alla storia quanto alla società che lo circonda. Da una parte, ne “Il Segno dei Quattro” ci narra della dominazione britannica dell’India, dall’altra cerca di disvelare alcune abitudini e convenzioni della società in cui vive, che, a suo dire, non appaiono poi più di tanto “salutari” o logiche.
Il fatto che il tesoro rimanga disperso è lo strumento narrativo tramite cui si giustifica il fatto che Watson possa sposare quella che doveva essere una ricca ereditiera. E, dietro questo spezzone narrativo, si scorge come Conan Doyle sembra voglia propugnare una società in cui le disparità sociali non risultino proibitive o impedimenti per realizzare la propria personalità e i propri desideri.
Inoltre, nemmeno troppo velatamente l’autore si scaglia contro il concetto di autorità, descrivendo i pubblici ufficiali – in ogni loro forma – come soggetti facilmente inclini ai vizi pericolosi e sicuramente troppo allettati dalla ricchezza facile, quindi facilmente corruttibili e, nella migliore delle ipotesi, semplicemente incompetenti.
Anche alla luce di questa mia seconda lettura, non posso fare altro che consigliarvi di dare una chance anche allo Sherlock letterario.
Qualcuno di voi lo ha letto?
Hai ragione, in questo secondo volume si nota meno il distacco tra passato e presente, che in uno studio in rosso era ben definito.
Devo dire però che mi ha coinvolta di più il primo tra i due, nonostante siano entrambi molto belli.
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A me aveva spiazzato il lungo flashback. Però, alla fine, sono entrambi dei bei romanzi 🙂
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