PRINCIPIUM ET FINIS – Hannibal fanfiction di Valeria Biuso e Giovanni Di Rosa

Ci sono fan di Hannibal o degli Hannigram?

principium et finem (2)

Oggi giornata autopromozione. Infatti, vi parlo di questo piccolo racconto che ho scritto in collaborazione con la bravissima Valeria Biuso

 

È una one shot in cui ci immaginiamo una cena fra i nostri due protagonisti ed esploriamo la fascinazione di Will per l’oscurità di Hannibal.

 

Qui sotto la storia completa!

Vi lascio, inoltre, una serie di link per poter leggere la storia su Wattpad, EFP o scaricare il file PDF. 

 

Qualsiasi commento, positivo o negativo, ovviamente ci farà un gran piacere. Grazie per l’attenzione.

 

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PRINCIPIUM ET FINIS

I maiali posseggono una dignità innata. Seguono modelli sociali simili ai primati, ma senza essere corrotti dal vizio delle circostanze, dei costumi, delle atrocità banali. C’è una calma placida nella loro accettazione dell’iniquo. Se si affrancassero dall’illusione vile di una natura domata, dal giogo della consuetudine,non esiterebbero a sgozzare gli allevatori. Nel corso della seduta di oggi, ho menzionato a Margot un episodio avvenuto poche settimane fa in una fattoria del Michigan.
La carcassa di un allevatore giaceva a terra da giorni, marcita per il troppo calore, dilaniata dai corvi e infestata dai vermi. Attirati dall’afrore dolciastroe imbizzarriti dalla fame, i maiali hanno divelto il recinto e sono corsi ad affondare le fauci nellecarni guaste.

È in quel banchetto che il maiale riconosce sé stesso. Comprende che il sapore dei suoi intestini non dev’essere poi tanto dissimile, così come quello della bile che fuoriesce dal fegato scoppiato, del pastone in fermento nello stomaco. Più va a fondo, più ammette: «Sono io».Ma questo palpito epifanico non può che sgretolarsi di fronte all’operosità umana, agli alveari millenari di costrutti inamovibili sul valore relativo e arbitrario dell’uomo rispetto a ogni altra macchina vivente. Il relativismo è l’unica arma dell’umanità?

«Il relativismo è l’unica arma dell’umanità?» ripeto ad alta voce alla cassa toracica del dottor Taylor.
Mi sfugge un sorriso. Will direbbe che il relativismo non è un’arma, ma un baluardo. Un baluardo che definisce i limiti della rettitudine umana prima che possa precipitarenel cinico abisso dell’oggettività. Niente terrorizza gli uomini più dell’idea di un’universalità ineluttabile.Eppure, caro Will, la miopia non è una scusante per l’ottusità.

Recido l’aorta e unflebile schizzo di sangue mi sfiora la visiera. Che sia il suo modo di convenire con me, dottor Taylor? Non che la sua opinione importi, dopotutto. È il relativismo ad averle permesso di aprire bocca in questi anni. È il relativismo ad aver legittimato la sua mediocrità.

Un cuore carminio, liscio, compatto, grasso intramuscolare appena accennato, perfettamente simmetrico.Sarà delizioso.

«Non si sente fortunato, dottor Taylor?» Chiedo ora ai suoi occhi sbarrati e vuoti come lampi consumati dal proprio bagliore.

«Le concedo un’occasione per sdebitarsi. È pur vero che talvolta in stercore invenitur aurum nostrum».

 

Grosse nubi violacee intasano il cielo, tutte aggrumate in un soffitto gelido e asfittico che scherma le stelle. Solo l’effervescenza tiepida dei lampioni cesella piccoli squarci ordinati nel crepuscolo della sera. Accosto le tende e indosso il grembiule.

Cœur à la Provençale. Pulisco e affetto il cuore in fettine sottili, le massaggio con un trito aromatico di aglio, timo e rosmarino. Quando lo scalogno sfrigola, le adagio nella casseruola, innaffiandole poi con un brodo di pomodoro Kumato.Una polvere di prezzemolo riccio guarnirà il piatto ultimato.

Riempio i calici di Côtes du Luberonrosso. Le sue spezie si mescolano agli echi vanigliati delle orchidee che ornano la tavola. Non esiste prevaricazionenelle occasioni armoniche inusitate.

Will sarà qui a momenti. Ancheil suo sé fiorisce attraverso le mie piaghe, la sua folgorazione: «Sono io». È però una consapevolezza ancora incompleta, martoriata da incertezze e remore ataviche.Dovrà sbarazzarsi delle pretese relative, arrendersi alla ferocia dell’universale. Perché accontentarsi del riflesso stagnante di uno specchio integro? Sono i suoi frantumi a custodire la chiave per il caleidoscopio mutevole delle possibilità. Le nostre affinità elettive non sono che possibilità scevre dal peso contingente della storia degli uomini, possibilità contra mundum.

Bach screzia l’aria di promesse, colma gli spazi vuoti dell’attesa. Lascerai che la tua consapevolezza venga sprecata, Will?

 

*

Rimango minuti interi a osservare la porta dell’appartamento di Hannibal, a osservare la porta che ha destinato agli ospiti. I pazienti entrano da un’altra parte: ha sempre separato le due cose. Ma io cosa sono per Hannibal? Paziente, amico, preda, oggetto di studio? La mia mano vaga davanti a me e sfiora la superficie della porta. Perché sono qui?

È come un’evocazione. La porta si apre e Hannibal è sulla soglia.

«Come sapevi che…?»

«Conosco il tuo odore…»

«Eppure non indosso un profumo da non so quanto tempo. Solo…»

«Acqua di colonia, e pure scadente. Lo so.»

Un brivido percorre la mia schiena e il sangue è freddo, ghiaccio che si addensa sotto la pelle. Scuoto appena la testa. Noterà il mio disagio? Ma che dico: certo che lo nota. Lui è Hannibal!

Avanzo e mi immergo in una piccola anticamera. Il parquet ai pavimenti, la boiserie lucidissima, l’isola immacolata dove sta cucinando. L’odore è intenso, piacevole. Qualcosa sfrigola in padella ma non riesco a capire cosa stia preparando.

«Ecco a te.»

Un bicchiere è tra le mie mani. Hannibal è stato così silenzioso che non ho notato i suoi movimenti. Mi è passato alle spalle e ha afferrato i bicchieri.

«G-grazie.»

Lui alza un sopracciglio. «Non credi che il tempo dei ringraziamenti sia passato? Siamo molto al di sopra di queste smancerie convenzionali.»

La risata di Hannibal riempie la stanza e la testa mi esplode. È come se la sua voce piena venisse riprodotta in stereofonia all’interno della mia coscienza. Lui è ovunque dentro di me.

Lo fisso, il bicchiere a pochi centimetri dalle mie labbra, la mano stretta attorno al calice. Non riesco a distogliere lo sguardo da lui, da lui che è tutti i miei demoni fatti carne. Una cena con Hannibal? Dopo tutto quello che è successo… Chi lo avrebbe mai ritenuto possibile.

«Dove ti trovi, Will?»

La sua voce mi riporta al presente. «Sono nella tua cucina…»

«Oh, Will…», lui sorride, «non essere così banale.»

Mi gratto la nuca e sospiro, mando giù un sorso e abbasso gli occhi per la prima volta. «Mi domandavo qual è la ragione di tutto.»

«Tutto?» Le sapienti mani del dottore lavorano ai fornelli.

«Io e te. Perché siamo qui a cena, insieme, dopo tutto quello che è stato…»

«Non è forse affascinante scoprire fino a dove possa portare l’arte del perdono. La nostra psiche riesce a sopportare quello che mai avremmo pensato di poter tollerare.»

Finisco il bicchiere di Côtes du Luberon e i miei occhi ricominciano a vagare sulla sagoma del dottor Lecter. La mascella, le orecchie, le spalle. È inconfondibile, bellissimo e spaventoso al tempo stesso. Esplorare la nostra amicizia è una follia seducente, la prima vera insania della mia esistenza.

«Hannibal…»

«Sì, Will?» Un sopracciglio si inarca e alcune rughe di espressione si formano attorno agli occhi freddi del dottor Lecter.

«Come hai fatto a perdonarmi? Io volevo ucciderti…»

«Volevi

Capisco all’istante cosa intende. «Credi che lo voglia ancora?»

La mano di Hannibal libera il manico della padella, si ferma: è una statua. «Non è forse irresistibile il fascino della vendetta.»

«Esistono molti modi di vendicarsi. Esiste la giustizia.»

«Interessante come tu abbia abbinato due concetti tradizionalmente lontani…»

«Perché pensi che lo voglia ancora?» Appoggio il bicchiere sul marmo, la mano ora libera sfila accanto al mio fianco. Trema, percepisco la vibrazione contro i miei vestiti.

«Non è estenuante resistere, continuare a rinunciare a ciò che non ritieni giusto?»

«Fare ciò che ritengo ingiusto può essere affascinante, dottor Lecter… ma quello che accadrebbe dopo? Sarei mai liberato dal senso di colpa?»

«Ti fai troppe domande. La verità è che la vendetta potrebbe inebriarti al punto da fare evaporare ogni rimorso. La vita è troppo breve, mio caro Will, per passarla a rimuginare sul passato. Perché limitare la nostra esistenza a causa di una cosa banale come il senso di colpa?»

I nostri sguardi si sfiorano, in un abbraccio elettrico. Brividi lungo la colonna vertebrale, sono confuso e attratto. Attratto come non mai dall’oscurità.

 

*

Il desiderio, se confinato nelle stanze anguste del timore, tenderà a ribellarsi, diventerà volubile, instabile. Comincerà a rarefarsi in un miasma denso, ferroso, per poi sedimentarsi nelle increspature malferme dell’inazione. Si calcifica nelle ossa, nel respiro, nelle pupille inquiete di Will che scavano nelle mie. Posso darti quello che vuoi, Will, ma solo se ti assolverai dal dubbio, se concederai a te stesso di avere fede nel tuo disegno, nel mio, nel nostro.

«Il senso di colpa non è banale, dottor Lecter» sussurra, puntando gli occhi altrove. «Senza senso di colpa saremmo delle bestie».

«Hai davvero poca considerazione per le bestie» sorrido. «L’uomo non è forse una bestia?»

«È proprio questo il punto».

Piega gli angoli della bocca in un moto di ilarità contratto. È più uno spasmo che un sorriso, un lampo nervoso. Ecco di nuovo quell’esitazione, il catrame che gli ristagna nei polmoni, che lo paralizza in una frenesia boccheggiante.

«Anche se…» riprende il calice e lo vuota in un sorso. «Tra le bestie è di certo la meno meritevole».

Come vedi, mio caro Will, è sufficiente smettere di agitarsi per poter respirare. «Assolutamente. È il prestigio della debolezza a sorreggere il consorzio umano».

«Tutta questa precarietà non può essere positiva».

Agito il sifone e lascio che una spuma verde e leggera si depositi in cima alle fette.

«Non sempre. Tuttavia, è deprecabile permettere che una data di scadenza ci scoraggi».

«E chi è a deciderla?»

Mi sposto in sala da pranzo. I passi dietro di me si armonizzano con i miei.

«Nessuno» dico dopo aver sistemato i piatti. «Certe decisioni non vengono prese, ma semplicemente avvengono».

Will arriccia le dita sullo schienale della sedia. I suoi occhi saettano sulla tavola imbandita, sui quadri alle pareti, sulle note di Bach, su di me. Mi sorride, ma stavolta sembra più di una maschera isterica di favore.

«In effetti» si mette a sedere, le mani giunte sul bordo del tavolo. «Sarebbe un peccato privarsi di un inizio solo perché se ne teme la fine».

Riempio di nuovo i calici prima di accomodarmi anch’io.

«Non potrei essere più d’accordo. Dopotutto, per quanto bizzarro possa sembrare, non è garantito che fine e inizio si escludano a vicenda».

«A questo punto dovresti saperlo, Hannibal» scrolla le spalle. «La bizzarria è l’ultimo tra i miei deterrenti».

«Touché».

Piego il tovagliolo a metà e lo appoggio sulle gambe, Will mi fa eco. Indugia alcuni istanti sui vapori caldi, sui battiti febbrili di un cuore spento. Le pieghe che gli sgualcivano la fronte si distendono ora in un velo piatto. Solleva le posate.

«Allora, che squisitezza hai preparato stasera?»

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