Recensione di “La vita di chi resta” di Matteo B. Bianchi: l’autopsia di un dolore

Nessuno si preoccupa mai di chi sopravvive alle tragedie, tutti i riflettori rimangono sulla vittima. Eppure ci sono dolori che meriterebbero attenzione, che conosciamo fin troppo poco.

“Non mi vergogno di parlarne, ma sono consapevole della gravità che sto consegnando nelle mani di chi mi ascolta. È come un dono al contrario: perché infliggerlo?”

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La vita di chi resta è un romanzo (parzialmente?) autobiografico di Matteo B. Bianchi che affronta una tematica molto complessa e delicata. Bianchi ci parla di come sia sopravvissuto e abbia, pian piano, superato la morte dell’ex compagno, suicidatosi nel 1998, appena tre mesi dopo la loro rottura.

È uno dei pochissimi libri che non pone il focus sul suicida, ma su chi, come l’autore, è costretto a scendere a patti con la morte di una persona amata per propria mano. Un tema snobbato dalla letteratura e poco affrontato persino nell’ambito della psicologia. È, in qualche modo, un libro che offre supporto e comprensione a chi, come l’autore, è un “sopravvissuto” a una simile e dolorosa tragedia.

Come ultimamente mi accade, i libri autobiografici mi entrano sotto la pelle e mi sconvolgono dentro. È un romanzo spietato che non offre comode rassicurazioni, ma che, per tre quarti della sua estensione, esegue una meticolosa autopsia del dolore e dei suoi effetti.

È una storia intima che esplora gli angoli bui e i momenti più degradanti della sofferenza di chi ha amato e perso qualcuno che amava.

Fino alle battute finali, si tratta di un romanzo che non regala facili speranze, ma parla di resistenza, resilienza. I timidi raggi della rinascita si scorgono solo nel finale di questo romanzo che conferma al lettore le infinite possibilità dell’uomo, capace di sopravvivere senza dimenticare e di ritornare, infine, a vivere, in qualche modo. Senza smettere di amare.

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