Buongiorno lettori, oggi ci tuffiamo nell’analisi, per la verità, piuttosto difficile di un romanzo che viene ricordato come una delle tre più importanti opere della letteratura statunitense. Sto parlando del libro di Francis Scott Fitzgerald “Il Grande Gatsby”, edito nel 1925.
Credo che, quando si parli di classici, Il Grande Gatsby spunti fuori, un po’ come il prezzemolo, sebbene, ritenga che in Italia non sia un libro letto proprio da tutti. E, a mio modo di vedere, il romanzo è accattivante fino a un certo punto, e, almeno nella sua parte iniziale, sembra tutto fuorché un capolavoro.
Opinioni personali a parte, la storia del libro ci riporta nell’America di inizio secolo scorso, è il 1922, e il nostro protagonista è Jay Gatsby, un riccone con una gigantesca villa nel cosiddetto “West Egg”, nella quale è solito invitare moltissime persone ai suoi party esclusivi (a cui si imbuca tutta la gente più o meno benestante dei dintorni). Gatsby, in gioventù, prima di arricchirsi, si è perdutamente innamorato di una donna, Daisy, la quale, nel periodo in cui lui era impegnato in guerra, ha sposato Tom Buchanan, un giocatore di polo. Gatsby coltiva il sogno di riscoprire quell’amore e di strappare a Tom l’adorata Daisy. I suoi progetti, però, ben presto si complicano, fino al culmine dell’opera che congeda il lettore con un finale a dir poco amaro, che non sto qui a rivelarvi.
Ho provato a leggere Il Grande Gatsby in lingua originale e, ve lo dico, l’ho trovato complicatissimo da comprendere. Il registro è molto diverso dai romanzi britannici e vi è una certa passione per i termini singolari e forbiti. Tuttavia, le difficoltà sono dovute esclusivamente al mio livello, perché ritengo certamente ben scritto il libro in questione.
La storia, all’apparenza striminzita e non originale, in realtà, è un gioco di incroci e di casualità molto ben studiato, in grado di disvelare tutti i punti oscuri di una società che Fitzgerald critica e dissacra.
Il narratore, tale Nick Carraway, ci permette di “toccare più da vicino” quella che è la visione dell’autore, che, con il romanzo in questione, voleva attaccare la classe sociale più abbiente della società. Sembra voler smascherare le magagne dietro la ricchezza dei “nuovi benestanti”, e, al contempo, criticare la mentalità di chi è ricco da tempo. Specialmente gli “aristocratici” sono il bersaglio di Fitzgerald, che li descrive come individui egoisti, vuoti, incapaci di reale empatia. Lasciano crollare il mondo attorno a loro, e ne prendono atto con un certo pragmatismo.
Il mondo delineato nel romanzo è un mondo di bellezza apparente, fittizia. Una mera copertura a un egoismo dilagante di una società che non ha tempo per le vere emozioni.
A questa tematica, poi, si aggiunge quella della solitudine. Specialmente nella seconda parte del libro ci si focalizza su questo aspetto. L’autore critica la solitudine a cui la società che descrive sta condannando l’essere umano. Dove non c’è interesse, non c’è compagnia. Gatsby è l’emblema della vicinanza per interesse. Quando si trattava di venire a scroccare una cena e un po’ di divertimento, tutti si affollavano, ma, nel momento di bisogno, nessuno è stato disposto a mostrare affetto o riconoscenza nei suoi confronti.
Nick Carraway, il narratore, svolge un percorso di maturazione interiore, di auto-consapevolezza, che lo rende in definitiva il rappresentante della giusta prospettiva attraverso cui leggere questa storia.
Non so in quanti di voi abbiano letto questo romanzo, ma mi sento di dire – anche per la notevole brevità dell’opera – che una chance dovrebbe essere data a questo classico, capace di ribaltare tutte le opinioni e i pregiudizi, maturati con le pagine iniziali, grazie ad un finale sicuramente coinvolgente e pieno di significato.