Buongiorno e buona festa della donna alle lettrici.
Oggi torno a parlarvi di serie televisive e, nello specifico, di “Tales of the city”, miniserie Netflix rilasciata l’anno scorso. Tale miniserie è il sequel di una sitcom degli anni ’90 tratta dai romanzi di Amistead Maupin.
Pur non avendo visto le stagioni precedenti (ben più datate), non ho riscontrato nessun problema nella fruizione dello show. Credo, anzi, che i produttori esecutivi volessero creare qualcosa di nuovo e fresco – anche se ricorrendo a qualche vecchio personaggio – per conquistare una nuova fetta di pubblico. E credo anche che abbiano approfittato del momento storico attuale in cui le tematiche LGBTQ possono essere sviscerate con molta più serenità, senza doversi preoccupare di scontentare il pubblico.
La trama della serie è molto semplice: torniamo a Barbary Lane, dove abita Anna Madrigal (Olympia Dukakis) una donna transessuale che ha sempre dato ospitalità a persone queer a San Francisco. Anna, tuttavia, nasconde un segreto e qualcuno inizia a ricattarla (e solo nell’ultima puntata scopriremo l’autore del ricatto) al fine di farle vendere l’edificio in cui abita, assieme ai ragazzi a cui ha dato ospitalità. Anna è una vera e propria icona nel quartiere e la comunità queer di San Francisco si spende per proteggerla. Parallelamente a questa main storyline, si sviluppano le storie degli altri personaggi, affrontando spesso tematiche delicate e controverse come il poliamore, la transessualità, l’omosessualità nelle persone transgender e così via.
Una serie che ha uno scopo ben preciso: parlare di persone queer. Pur avendo uno scopo nobile e portando a conoscenza del pubblico alcuni concetti e temi quasi sconosciuti (per dire, alcune persone non sanno nemmeno cosa significhi essere queer), la serie non mi ha convinto del tutto.
Si tratta di dieci puntate e io ritengo che solo le ultime tre fossero davvero coinvolgenti, sia dal punto di vista della sceneggiatura sia dal punto di vista delle storyline portate avanti. La pochezza delle storie sviluppate è stata compensata dal contorno. Infatti, i produttori hanno fatto una dose massiccia di fanservice, cercando di approfondire il contesto e spingendo l’acceleratore sulle scene a luci rosse.
È un modo di fare televisione che poco gradisco, detto con sincerità. Sembrava davvero che ogni episodio dovesse concludersi con una scena di sesso molto esplicita. In qualche modo, in un’epoca avanguardista (almeno nell’arte) ma che ancora non ha normalizzato nell’immaginario collettivo la figura delle persone LGBT non so se sia proficuo dare un’immagine così sfrenata della sessualità fra le persone queer.
Tirando le conclusioni del discorso, mi sento di dire che da quando la serie esplora il passato di Anna si nota un netto miglioramento nella qualità dello show e la sensazione che rimane, alla fine della visione, è comunque più positiva che negativa.
Appare comunque molto improbabile che ci sarà una nuova stagione. Pare che la serie abbia ottenuto buoni riscontri, ma non sembra possibile riunire nel set i protagonisti dello show, a causa di impegni confliggenti.