Buongiorno, amici lettori.
Oggi voglio parlarvi di “Storia di una Capinera”, breve romanzo epistolare di Giovanni Verga, lettura che mi ha tenuto compagnia in questi ultimi giorni.
DI COSA PARLA STORIA DI UNA CAPINERA?
Siamo nella Catania del 1854 e Maria sta trascorrendo insieme alla famiglia le settimane lontana dal centro abitato, nello specifico sul Monte Ilice (cono vulcanico dell’Etna). Siamo nel bel mezzo di un’epidemia di Colera e questo ha portato Maria ad allontanarsi dal convento. Lei è, infatti, una suora di clausura. È stata costretta dalla famiglia alla vita monacale all’età di sette anni, senza che lei abbia potuto avere peso nella scelta.
Il suo soggiorno al Monte Ilice, però, stravolge i sentimenti di Maria che finisce per innamorarsi di un giovane. La passione che Maria sviluppa per l’amato cambierà del tutto la visione di Maria fino a renderle insopportabile l’idea di ritornare alla claustrale.
IL MIO GIUDIZIO
Verga è uno di quegli autori che mi hanno sempre suggerito, ma che ho sempre guardato con un certo scetticismo. Ho sempre pensato che lo stile di Verga non fosse troppo nelle mie corde. Eppure, questo breve romanzo ha scompaginato la mia opinione su Verga (di cui avevo letto soltanto “I Malavoglia”).
Non vorrei azzardarmi o essere impreciso, ma io in questa storia ci ho letto una vena romantica pulsante. Un amore romantico che è tormento e, in definitiva, malattia. La descrizione che Verga fa del sentimento romantico e dell’amore impossibile è molto lontana da ciò che ci immaginiamo tipico del verismo. Non che l’autore intervenga o si perda in guizzi estremi. Si affida, però, alle parole della sua protagonista per dipingere a chiari tratti una passione non ricambiata così febbricitante da colpire il lettore.
Inoltre, ritengo l’opera assai intelligente e schietta nell’affrontare una tematica molto rilevante: non tutti scelgono il celibato, non tutti accettano di buon grado la vita monacale. Maria è, a tutti gli effetti, una vittima delle circostanze. Il convento e la vita da suora sono per lei – utilizzando il termine scelto da Verga – un “sepolcro”.
La forza di alcune immagini rende questa storia (che io ho, comunque, trovato in alcune parti vagamente ripetitiva) molto potente e interessante.
Tutto si riduce, in ultima analisi, a un parallelismo fra la protagonista, Maria, e una capinera che muore perché, pur potendo nutrirsi, chiusa in gabbia non riesce a vivere. Non si riesce a vivere quando le ali ci vengono tarpate, quando siamo privati della nostra libertà e quando le mura che bloccano il nostro cammino non sono quelle di cui abbiamo scelto di circondarci.
Mi sentivo vicina a Verga quando ero adolescente e un periodo dark e nichilista. Ora lo trovo volutamente crudo. Un po’ un gufo insomma… ‘ricordati che devi morire’ ‘mo me lo segno’ rispondeva Troisi😉
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mi hai fatto ridere, ma secondo me è molto vero: quest’estate ho fatto i compiti con mia sorella e abbiamo lavorato su I Malavoglia, e a un certo punto, per quanto capisca la tesi di Verga, diventa quasi grottesco nell’accumularsi delle sfighe che riversa sui suoi protagonisti.
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😂 in un certo senso hai ragione.
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Mamma mia, che angoscia; credo di averlo letto all’università insieme a I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo, e quanto stare male! Infatti Verga è un autore che ho letto molto poco perché lo trovo emotivamente estenuante, è proprio faticoso, per me, leggerlo; però è indubbiamente, e giustamente, una delle vette della nostra letteratura, ed è fondamentale conoscerlo.
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A me questo romanzo è sembrato molto lontano dai Malavoglia che ho odiato proprio per le ragioni che hai detto tu.
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