Buongiorno, amici lettori, e ben ritrovati sulla mia pagina.
Oggi iniziamo una “settimana verghiana” in coincidenza con la celebrazione del centenario dalla morte dello scrittore catanese con la recensione di “Mastro Don Gesualdo”, che è stata la mia ultima lettura.
DI COSA PARLA MASTRO DON GESUALDO?
Gesualdo Motta è un umile lavoratore che, col sudore e con la lungimiranza, riesce a diventare un vero e proprio Don a Vizzini. La sua condizione crea molte invidie e antipatie nel paese in cui abita. Infatti, la sua elevazione sociale è invisa dai nobili decaduti che ormai non hanno più le ricchezze di un tempo, ma è anche scoraggiata da quella che è la mentalità aristocratica. Infatti, sebbene Gesualdo faccia di tutto per accomunarsi ai nobili del paese, tramite il matrimonio e aiuti economici ai parenti acquisiti, la sua è la storia di qualcuno che non riuscirà mai a completare la scalata sociale che si era prefissato e che, anzi, finirà per non essere accettato da nessuno. Gli umili lo odieranno per la sua ricchezza e i nobili lo odieranno per aver provato a raggiungere uno status che non gli apparteneva per nascita.
IL MIO GIUDIZIO
Sembra quasi irriverente recensire uno scrittore come Verga, però voglio condividere con voi le mie riflessioni in merito alla lettura di uno dei capisaldi della letteratura italiana, nonché secondo romanzo del Ciclo dei Vinti, che segue a I Malavoglia.
Devo ammettere di aver trovato il romanzo un esempio chiaro di quella che è stata una vera rivoluzione letteraria, fondata essenzialmente su due pilastri: l’impersonalità e il linguaggio semplice. Senza voli pindarici e guizzi inauditi, Verga scolpisce alla perfezione la realtà del paese in cui Gesualdo vive e, pur non intromettendosi con giudizi esterni, dipinge un quadro meticoloso della mentalità dell’epoca.
È un romanzo che si apprezza per il modo vivido in cui traspaiono le idee e i caratteri dei personaggi e per la totale immersione che si ha in un contesto lontano.
Ne ho apprezzato anche la “malinconica” presa d’atto di Verga che ogni tentativo di cambiare il proprio destino sia destinato al fallimento. Chi troppo vuole, è destinato all’infelicità. Ritengo sia questo, in estrema sintesi, l’insegnamento del romanzo, insegnamento di cui tutti noi dovremmo fare tesoro.
IL “ROBA-CENTRISMO”
Perdonatemi il neologismo, ma credo davvero che il punto su cui bisogni soffermarsi, nel parlare delle opere di Verga, sia questo: la roba. L’autore delinea in maniera lampante come il movente più forte dell’essere umano sia il denaro. E questo vale per tutti i personaggi. Ognuno, alla fine, si ricorda cosa conta davvero ed è il denaro. Il denaro è la chiave per risolvere i problemi, per mettere a tacere le malelingue, per sentirsi realizzati. E non c’è sentimento che tenga: la roba è più importante.
A mio avviso, la roba e l’interesse per la roba ha due chiavi di letture che vale la pena osservare in questa sede.
Innanzitutto, la roba, da un punto di vista letterario, attesta che l’indagine dell’artista non mira più all’alto, a quei sentimenti grandiosi quasi da esser percepiti come metafisici. Lo scrittore deve analizzare l’animo umano anche (e soprattutto) nelle sue bassezze. E, come accade anche oggi, nella nostra società si punta più alla soddisfazione economica che all’amore romantico (o sbaglio?).
Da un altro punto di vista, invece, la roba diventa lo spartiacque fra la realtà storica preottocentesca e i moti sociali che stanno iniziando a strutturare un nuovo tipo di società. Chi ancora crede nell’importanza degli alti sentimenti, chi ancora crede che a importare sia un’aristocrazia fatta di modi e apparenze, è destinato a fallire. Emblematico è il personaggio di Bianca, totalmente incapace di calarsi nella realtà del suo tempo, e pertanto destinata alla catastrofe. Il suo personaggio, come quello dei suoi fratelli, infatti, proprio a causa del suo anacronismo risulta ammantato da un’aura di tragicità che lo rende quasi più “fallito” del fallito per eccellenza che è Gesualdo. Gesualdo almeno ha capito come funzionano le cose e si danna l’anima come un povero diavolo per sconfiggere il destino. Bianca, d’altra parte, accetta la distruzione di se stessa che è metafora per la fine di un tempo e di un modo di concepire la ricchezza, la vita e la morale.
secondo me su un autore classico si parla di ‘recensione’ ma alla fine la nostra pur volendogli tutto il bene/male del mondo sarà sempre una riflessione
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E’ veramente bellissimo, anche se preferisco I Malavoglia; bellissimo in senso letterario, ovviamente, dal momento che si tratta, per me, di letture molto difficili e ben poco piacevoli. Ammetto di aver fatto una gran fatica a tollerare diversi passaggi del libro, come le scene con il padre di Gesualdo che mi suscitava un odio quasi fisico!
Non so se, in realtà, sia un insegnamento di cui fare tesoro: in pratica ti insegna a rimanere al tuo posto e non cercare mai di migliorarti o di elevarti dalla condizione in cui sei nato, e mi sembra una morale mostruosa! Perfettamente in linea con quella che era la premessa del Ciclo dei Vinti e sicuramente coerente con la mentalità dell’epoca in cui il romanzo è ambientato, ma che oggi non mi sentirei di proporre come un messaggio da seguire. Forse noi veniamo da generazioni in cui, al contrario, è stata proposta in maniera eccessiva l’altro estremo, ossia che chiunque possa essere quello che desidera e che tutto possa essere a nostra disposizione se ci sforziamo di ottenerlo, effetto della retorica statunitense sull’american dream, ma credo ci possa essere anche una valida via di mezzo in cui sia possibile migliorare la propria vita con il riconoscimento della società senza illudersi di poter avere tutto.
La roba, poi, ci dimostra che il materialismo non è una piaga solo di oggi, purtroppo!
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