Buongiorno a tutti e benvenuti al secondo numero di Bookframes. Anche oggi ci tufferemo in un approfondimento letterario, che ovviamente speriamo tutti voi apprezzerete!
Oggi celebreremo il centenario della morte di uno degli scrittori più importanti della tradizione letteraria italiana. Stiamo parlando di Giovanni Verga, il più importante esponente del movimento verista in Italia, che è venuto a mancare il 27 gennaio del 1922.
Ma andiamo per gradi…
CHI ERA E IN QUALE MONDO È VISSUTO
Ha circa vent’anni quando l’Italia trova la sua unità, periodo in cui si manifestano tutti quei problemi legati alla formazione di una sensibilità nazionale, a dispetto delle persistenti e forti divisioni fra Nord e Sud. La questione sociale dei rapporti fra padroni e masse lavoratrici sarà a lungo al centro del dibattito politico e sociale e influenzerà il suo pensiero e la sua poetica.
Nato a Catania, dopo un inizio letterario che si rifà agli scritti di Dumas padre, Verga, con la novella Nedda attua la sua conversione al Verismo, movimento al quale si possono ricondurre le sue opere di maggior successo: I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo, che si inseriscono indubbiamente fra i più notevoli romanzi della letteratura italiana.
La principale caratteristica del verismo verghiano consiste nella «scomparsa» dell’autore, tecnica secondo la quale i fatti della narrazione avvengono e si succedono in maniera autonoma, come per una necessità spontanea.
IL VERISMO
Il Verismo nasce sotto l’influenza del clima positivista dell’epoca, quell’assoluta fiducia nella scienza, nel metodo sperimentale e negli strumenti infallibili della ricerca che si sviluppa e prospera dal 1830 fino alla fine del XIX secolo. Richiamandosi al naturalismo francese delle opere di Emile Zola, ma anche ad Alessandro Manzoni, il movimento tende a descrivere la vita della gente umile, dei reietti dalla società che si affannano nella lotta per la sopravvivenza, contro la fatalità del destino. Si svilupperà a Milano, il centro culturale più vivo della penisola, sebbene le opere veriste tendano a rappresentare soprattutto le realtà sociali dell’Italia centrale, meridionale e insulare.
La Sicilia è descritta nelle opere di Giovanni Verga, Luigi Capuana e Federico De Roberto; Napoli in quelle di Matilde Serao e di Salvatore Di Giacomo; la Calabria nelle opere di Nicola Misasi; la Sardegna in quelle di Grazia Deledda; Roma nelle poesie di Cesare Pascarella; la Toscana nelle novelle di Renato Fucini. Per queste diversità regionali anche il modo di scrivere cambia nel verismo, dando spazio ai dialetti ed eliminando tutte le forme di raffinatezza retorica e accademica, introducendo nella letteratura la cosiddetta mimesi linguistica.
La corrente letteraria verista caratterizzerà gli anni che vanno dal 1875 al 1895, e il suo successo è dovuto principalmente proprio a Giovanni Verga e Luigi Capuana.
LO STILE E LE INNOVAZIONI DI VERGA
Giovanni Verga è, indiscutibilmente, tra gli scrittori italiani più apprezzati, ma è soprattutto un innovatore, uno di quelli che ha cambiato la storia della letteratura italiana. Ci si potrebbe sbilanciare fino al punto di affermare che, come importanza, per la storia della letteratura del nostro paese Verga sia secondo solo a Dante.
Le opere più riuscite di Verga, su tutte “I Malavoglia”, “Mastro Don Gesualdo” e la novella “Rosso Malpelo”, sono pietre miliari che hanno segnato in modo profondo il modo di intendere la narrativa in Italia, e non solo.
Con Verga e il movimento verista assistiamo alla nascita di un modo di scrivere innovativo, originale, che accantona il pathos e il travolgimento del romanticismo e soprattutto contesta l’onnipresenza dell’autore all’interno della sua opera.
Nelle opere mature di Verga, infatti, possiamo assistere alla scomparsa del giudizio dell’autore, seguendo il canone dell’impersonalità che aveva preso piede in Francia con la corrente naturalista. Tuttavia, tra il naturalismo e il verismo sussiste una evidente differenza che si può leggere nel registro linguistico e in quella semplicità raffinata e studiata meticolosamente che si può ritrovare negli scritti di Verga.
Perché parlo di semplicità raffinata? Perché il periodare di Verga ricorre a un vocabolario umile, ma che viene gestito in modo sapiente. Sono pennellate rapide e continue che non lasciano tanto all’immaginazione. Senza mai entrare nella testa dei personaggi, senza mai il bisogno di un autore che spiega al lettore o che si cala come deus ex machina all’interno della vicenda, il linguaggio di Verga descrive l’ambiente, rende il contesto storico-sociale tridimensionale e sfugge all’ombra dell’indefinito.
Seppure dai tempi di Verga si sia molto sperimentato e si siano prodotte opere molto diverse e complesse, in cui anche l’impersonalità è stata ripensata e ristudiata, ritengo che la sua influenza sia ancora evidente nella letteratura italiana contemporanea (quella di qualità, quanto meno).
E in che modo risentiamo ancora della sua influenza?
La migliore qualità verghiana, a mio avviso, è la misura. Misura che è la capacità e la sapienza nel calibrare una descrizione completa, piena, che non annoia mai, che non diventa mai soverchiante nella storia. Sapienza nel fare risultare un linguaggio semplice canone di alta letterarietà.
Alcuni pensano ancora (e più in Italia che all’estero) che scrivere sia dare sfoggio di un vocabolario pantagruelico, di un periodare barocco, infarcito di termini che nemmeno i nostri avi utilizzavano. La verità è che Verga, uno dei più importanti (ma forse il più importante) scrittore del novecento italiano, ha insegnato a tutti che non occorre fare voli pindarici e trasformare la penna in uno strumento indicibilmente complicato per creare l’arte. L’arte letteraria è la capacità di scrivere, di raccontare e di trasmettere.
E quello che mi preme sottolineare è che, a differenza di quanto potrebbero credere i molti che rimangono intimiditi da Verga e che non si cimentano nella lettura dei suoi testi, la mancanza di un autore-narratore invadente non rende sciapa la lettura. Il modo in cui Verga orchestrava i dialoghi e le scene era il risultato di un’architettura congegnata alla perfezione per dipingere immagini vivide e plasmare personaggi definiti in ogni dettaglio che rappresentano in modo fedele la realtà catturata dall’occhio clinico di un artista dalla tecnica impareggiabile.
“Senti… il mondo adesso è di chi ha denari… Tutti costoro sbraitano per invidia”
UNA LOTTA DI CLASSE DESTINATA AL FALLIMENTO
Forse la vera essenza della letteratura del Verga maturo – quello che ormai si era liberato dell’influenza romantica – è il racconto della lotta di classe. Una scalata sociale rappresentata con uno scetticismo impietoso che mostra tutti i tentativi dei più umili di affrancarsi dalle limitazioni della propria condizione un po’ come il volo di Icaro, un fallimento scritto da cui non si può sfuggire.
La società dei romanzi verghiani è, sfortunatamente, ancora troppo simile a quella odierna. Basti pensare a quanto, ancora oggi, la strada risulti in salita per chi non nasce in una famiglia agiata, a quanto sia complesso trovare le risorse e le occasioni per arrivare ai vertici. Viviamo in una società, all’apparenza, fondata sulla meritocrazia, dietro alla quale, però, ancora si nascondono ostacoli, forse non insuperabili ma sicuramente di difficile soluzione, che si frappongono alla scalata sociale. Basti pensare a come l’accesso ad alcune professioni richieda investimenti tanto ingenti da portare a una selezione per censo fra coloro che aspirano al successo in un determinato settore. E, allo stesso modo, si potrebbe parlare di quanto sia ancora oggi complicato “fare soldi senza averne da investire”, in una realtà che, malgrado il progresso, è rimasta molto vicina a quella ottocentesca, almeno da questo punto di vista.
Rimane comunque curioso il legame tra scrittura e realtà in Verga: il suo pessimismo lo porta a negare ogni riscatto degli umili che si distaccano dalla tradizione. Nonostante nelle sue opere egli veda uno sfruttamento delle classi più deboli, si distacca delle idee socialiste del naturalismo francese, tanto da approvare la repressione delle proteste sindacali dei Fasci siciliani attuata dal governo di Francesco Crispi. Mantiene una strana benevolenza per le classi umili, e nonostante ne capisse la sofferenza non contempla un superamento di quel malessere tramite le rivolte contadine.
Giovanni Di Rosa
Luca Amato