“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola
un grido taciuto, un silenzio.”
Una delle storie d’amore più chiacchierate della storia della letteratura è quella che ha legato (invero, assai brevemente) Cesare Pavese all’attrice Constance Dowling.
Ed è di questa storia che voglio parlarvi oggi, nel consueto appuntamento dei bookframes. Ancora amore in letteratura, ma non in senso di critica letteraria e ricostruzione storica. Oggi facciamo quello che Pavese aveva chiesto di non fare ai giornalisti, ovvero pettegolezzi.
Proprio così: Pavese si tolse la vita e chiese, come ultimo desiderio, che non si facessero troppi pettegolezzi sulla sua fine.
UN AMORE FINITO GIUSTIFICA IL GESTO ESTREMO?
Pavese nel Mestiere di Vivere sostiene che “Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, amore, disillusione, destino, morte”.
Ed è da queste parole che si deve partire per comprendere di più le ragioni che si celano dietro alla decisione di Pavese di togliersi la vita.
È chiaro che non sia Constance o la mancanza di Constance la causa scatenante per il gesto estremo. E, diciamocelo, nessuno potrebbe mai decidere di uccidersi per una sola ragione. Piuttosto è da considerare Constance come un’illusione. L’amore che li ha legati è fin troppo breve e Pavese non riesce ad accettare la repentina separazione. Scrive, scrive in continuazione alla donna amata e non ottiene mai risposta. E dal suo atteggiamento emerge come nell’attrice statunitense Pavese avesse davvero trovato il barlume di una salvezza, una via d’uscita da una battaglia con la morte quotidiana.
Una morte quotidiana che, a giudicare dai versi citati all’inizio (tratti da “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”), non può che essere metafora per la solitudine.
L’autore è divorato dal desiderio di amare e di essere amato, un desiderio che rimane troppo a lungo insoddisfatto e rende l’esistenza opprimente. Opprimente come uno spettro (la morte) che ci guarda ogni giorno, che segue ogni nostro passo.
NON CI SI UCCIDE PER L’ODIO MA SOLO PER AMORE
A raccontarvi di Constance e Cesare, mi viene da chiedermi: esiste una ragione valida per suicidarsi? Ma soprattutto cosa può spingere un uomo a un gesto tanto drammatico.
Credo che questa riflessione ci permetta di sottolineare ancora una volta come l’amore e solo l’amore sia un sentimento tanto potente da giustificare l’atto estremo, l’eliminazione di noi stessi.
In qualche modo, l’amore così come il suicidio è un’inversione alle leggi della sopravvivenza. L’amore è affidarsi all’altro, mettere nelle mani di qualcun altro il proprio benessere. L’amore può essere un vincolo insidioso soprattutto per chi si sente solo. Per questa ragione, non fatico a immaginare il dolore covato a lungo nel cuore di uno degli autori più importanti del novecento italiano.
A volte sentire è una condanna. Per Pavese il dolore e il demone rappresentato dalla solitudine sono stati fiamma inesauribile di un arte senza pari, ma sono state anche il difetto fatale che gli ha impedito di vivere.