“Cosa credi? La luna c’è per tutti, così le piogge, così le malattie”
Pochi romanzi sono riusciti a mettermi in difficoltà nell’esprimere un giudizio come La luna e i falò di Pavese.
Durante l’intera lettura ho oscillato fra l’estatica contemplazione di una perfezione stilistica assai nota (e credo che per tutti sia indiscutibile la bravura e la maturità letteraria di Pavese) e una storia che non mi ha mai preso.
Una storia come tante, una vita come tante. La vita di un esule e di un girovago alla ricerca della propria dimensione, che forse malgrado i tanti anni vissuti lontano da casa non è mai riuscito a dimenticare le sue origine e i personaggi familiari della sua infanzia e della sua gioventù. Questo è il protagonista della Luna e i falò.
A mio avviso, dietro le molteplici tematiche che si possono individuare nel testo – dalla guerra agli amori, passando per la nostalgia -, vi è un’univoca visione tragica dell’esistenza. Credo che in pochi autori, come in Pavese, la vita sia legata indissolubilmente alla morte. La vita di un uomo è un susseguirsi di episodi che, inesorabilmente, conducono alla morte. Il personaggio di Santa è emblematico in tal senso.
Ma il senso di scoraggiamento e di sfiducia nelle bellezze e nelle sorprese che può riservare la vita si scorge anche negli accadimenti più semplici. La stessa descrizione dell’amore genovese del protagonista finisce per essere un chiaroscuro di puro disincanto, in grado di mettere in evidenza come i grandi sentimenti e le grandi gioie non paiano essere di questo mondo. La vita terrena è arida e il più a cui si può ambire è un equilibrio esistenziale, non la felicità, mai la felicità.
La tematica della guerra, tanto discussa in Pavese, viene esplorata senza orpelli e senza aspirazioni patriottiche. Non v’è l’intento di una celebrazione della resistenza. Semmai, la guerra stessa diventa l’ennesimo – e forse il più evidente – esempio dell’aridità della vita. La guerra distrugge la vita e gli stessi uomini finiscono per farsi la guerra, come servi di un destino che li ha condannati all’infelicità e a un inevitabile avvicinamento alla morte (e questo avvicinamento, per Pavese, è in definitiva ciò che noi chiamiamo vita).
Un capolavoro, non c’è niente da dire
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la copertina è bruttina forte
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